Diretto da Charlie Kaufman, I’m Thinking of Ending Things è un film orrifico e toccante, nonché un dramma psicologico che non manca di originalità. La ricetta? Un pizzico di Split (M. Night Shyamalan, 2017), un zest di The Visit (M. Night Shyamalan, 2015), un granello di Donnie Darko (Richard Kelly, 2001), una spruzzata di Midsommar (Ari Aster, 2019), un soffio di The Man from Earth (Richard Schenkman, 2007) e un pelo di I Am the Pretty Thing That Lives in the House (Oz Perkins, 2016), e si ottiene solo il 25% della complessità di quest‘ opera dello sceneggiatore di Eternal Sunshine.
In piena tempesta di neve, una donna accompagna il suo fidanzato ad andare vedere i suoi genitori e si chiede se avrà il coraggio di lasciarlo. Inizia un lungo e gelido viaggio, punteggiato da discussioni, dubbi e interrogativi sempre più costanti prima di raggiungere la loro meta: una cascina isolata. Adattato dal romanzo di Iain Reid, questo racconto non esita a tagliare un’azione, ad allungare un’inquadratura fissa e silenziosa e a giocare così sull’inquietudine. Un discreto andare avanti della storia che ci dà i primi indizi in modo insidioso (la macchia del maiale morto nella stalla, gli agnelli congelati, la foto d’infanzia dove i due protagonisti si riconoscono, ecc.). Un niente avrebbe potuto rendere il film incomprensibile ed incerto, ma Charlie Kaufman non mostra nulla di tutto ciò, tanto che avanza con sicurezza in un simbolismo ricercato. Dall’inizio della trama si rivelano due quadri temporali: un Jake anziano, consumato dai rimpianti e dalla solitudine, che lavora come bidello in una scuola, e la coppia formata dal giovane Jake e dalla sua ragazza che vagano verso la vecchia fattoria.
Femminismo e crisi d’identità
L’incredibile Lucy, interpretata alla perfezione da Jessie Buckley, rifiuta categoricamente di essere solo un supporto al suo ragazzo, di essere solo un personaggio secondario in questa storia, anche se lei è la narratrice. I suoi discorsi urlanti sul femminismo la rendono un personaggio con una psicologia sicura e singolare che spicca in quest’opera schizofrenica. Ci dà riflessioni profondamente femministe sul posto delle donne in una coppia. Solo Lucy sembra essere sicura di sé, ed anche persa in un mondo di cui non sa nulla, non perde il suo brio e si impone su Jake. Di fronte alle domande esistenziali che le vengono poste, Lucy non si accontenta di rispondere con la sua cultura e la sua intelligenza, va oltre, interrogando instancabilmente le sue stesse parole, mostrando così che alla fine ci sono poche risposte se non giustificazioni soggettive e personali per ciascuna di esse. Poesie, Storia, Filosofia, Fisica e ideologie si mescolano, formando dialoghi vivaci e di altissima qualità. Il fatto di non « osare » emerge spesso nel discorso della coppia. Non osare dire di no quando le viene chiesto il numero di telefono è l’inizio di un lungo viaggio che la porterà a non osare lasciarlo e pone le basi di ciò che è sbagliato nella nostra educazione di genere.
Protagonista all’avanguardia del femminismo e delle questioni etiche e filosofiche che lo accompagnano: poetessa, astrofisica, pittrice, critica cinematografica, la giovane donna dai capelli rossi passa da una professione all’altra, dimostrando di essere capace di tutto. Il suo carattere forte e intelligente la rende il personaggio più riuscito di questo film. Lo dice lei stessa, sa di essere solo il tirapiedi di Jake. La sua intelligenza, il suo umorismo e le sue attività appaiono allora come un punto di forza per il suo ragazzo che deve stare con i suoi genitori malati. È Lucy che continua a dire a se stessa che vuole farla finita. Razionale e cercando di capire chi è e cosa sta facendo, costringe finalmente il vecchio ad accettare la propria morte. Solo Lucy sembra abbastanza coraggiosa da affrontare la verità. Un’allegoria della donna che il vecchio Jake avrebbe sognato poi gli viene incontro, non lo conforta e si comporta come ha sempre fatto rifiutando di lasciarsi andare. « Non è stato così male« , aggiunge prima di andare a cercare il suo ragazzo nei lunghi corridoi della scuola. Il significato rimane poco chiaro: sta parlando di ricordi reali condivisi con Jake? O il fatto che lei esiste nella testa del vecchio e che tutto questo avrebbe potuto forse continuare un po’ più a lungo prima che si estinguessero tutti insieme al loro creatore? La giovane donna sembra essere un’invenzione della sua mente. Una scena proverà questa teoria: quando il vecchio Jake fa una pausa pranzo al lavoro e si trova davanti alla televisione, includerà l’eroina del film nella sua fantasia. Lo stesso vale per le due ragazze del liceo che assumeranno i ruoli dei due impiegati di Tulsey Town. La giovane donna dai capelli rossi che sarà nominata con diversi nomi nel corso del film si rivela allora essere un insieme di rappresentazioni di donne immaginarie di cui ha sognato, di ricordi o di donne che non ha mai osato avvicinare.

Un’allegoria della vecchiaia
Come le porte (quella del fienile o degli armadietti a scuola), i ricordi si chiudono, attaccati dalla degenerazione delle cellule o dalla malattia. Per quanto riguarda la porta della cantina, essa è ben sorvegliata, con nastro adesivo e graffi, nascondendo la verità ai « giovani » personaggi. Questo simbolismo ricorda il morbo di Alzheimer, con il suo sistema di « cassetti di memoria » che si chiudono e non si aprono più. Un simbolismo sostenuto dalle scene con il giovane padre di Jake, interpretato da David Thewlis, che ha bisogno di parole in ogni stanza della sua casa per ricontestualizzare gli eventi, capiamo rapidamente che I’m Thinking of Ending Things è un film sulla perdita dei punti di riferimento e dei mezzi che ogni essere vivente sperimenta una volta che raggiunge la fine del suo tempo. Se è un film che interroga l’esistenza, quest’opera è anche un saggio sull’identità che risulta dalle scelte che facciamo, frutto di un mix disastroso tra il caso spietato, una volontà intima e singolare, un’educazione parentale e le possibilità e i limiti imposti da una società che ci costruisce.

Tutto è fatto in modo che possiamo metterci al posto di una persona anziana con problemi cognitivi, e più specificamente, per tutto quello che riguarda la memoria. I giovani personaggi sono consapevoli della loro esistenza e agiscono come se ritardassero la scadenza. Incapaci di realizzare che esistono solo nella mente del vecchio, i protagonisti ricordano le diverse personalità di Kevin Wendell Crumb in Split. Annoiati dal « reale », i personaggi si perdono, girano in tondo, fanno sempre le stesse cose.
L’angoscia nostalgica di un vecchio
Sembrava plausibile che, da un momento all’altro, i personaggi potessero perdere la testa, precipitando la trama in un’isteria collettiva, un sanguinoso dramma familiare o addirittura una follia omicida, ma non è così. L’orrore di I’m Thinking of Ending Things si regge da solo nella sua inquietante ricerca di comprensione. Vediamo un cervello offuscato dalla depressione, tristezza, paura, solitudine e malattia.
Attraversando il tempo e lo spazio in modo tanto strano quanto magico, creando ponti, falsi ricordi e relazioni immaginarie per riempire un vuoto, gli spettatori sperimentano la confusione, l’angoscia e il senso di estraneità che caratterizza le preoccupazioni della memoria di molte persone alla fine della vita. Grazie a questa eccelente procedura per far vivere ciò che il vecchio del film sente, Charlie Kaufman crea infatti una profonda empatia tra i suoi personaggi e il suo pubblico. La domanda è : perché nascondiamo la vecchiaia? Parliamone e parliamone bene. Quest’opera è così attraente che ricorda l’interazione di un videogioco e di un’avventura à la Among the Sleep (Krillbite Studios, 2014), tanto è palpabile il disagio e la percezione di un mondo attraverso gli occhi di un bambino che è in definitiva così simile a quello degli anziani. Persi in un mondo alieno e incomprensibile, senza le capacità fisiche e mentali necessarie per controllare il loro ambiente, i protagonisti di questo universo fanno del loro meglio per sopravvivere. Le diverse scelte lavorative della giovane donna sono anche un richiamo alla storia di Jake. E se non avesse interrotto la sua carriera per prendersi cura dei suoi genitori malati? E se avesse osato fare una cosa del genere in un momento preciso della sua esistenza, cosa sarebbe oggi? Voglio solo concludere con alcune domande profonde sulla vita e sul tempo, crudelmente lineare, che ci impedisce di fare un’altra scelta una volta che ne abbiamo fatta una.
Un film sconcertante per alcuni? Questo è l’obiettivo di Charlie Kaufman, perché è l’emozione principale che proveremo quando saremo nei panni di questo vecchio. Un disagio astratto e sordo accompagna lo spettatore per tutte le 2h10 di visione del film. Voglio solo concludere che è la storia di una follia, di una visione distorta della realtà, di una fine triste che nessuno vuole ascoltare o guardare e ancor meno capire perché è troppo angosciante per filosofeggiare. Anche i personaggi di Charlie Kaufman fanno finta di niente, cercando scuse per normalizzare gli eventi. Tra orrore, tenerezza, angoscia, rimpianto e disperazione, questo film ci immerge nei sentimenti di un vecchio perso e solo, in una vecchiaia necessariamente decadente e terribile per chi gli sta vicino, ma anche visceralmente inquietante per chi sta in mezzo.
Il film finisce in un climax fantasmagorico, mezzo terrificante e mezzo comico, con un anziano Jake che muore di ipotermia nella sua auto mentre lascia il liceo. Il suo spirito accompagna poi un maiale parlante, lo stesso dell’inizio del film mangiato dai vermi, per andare verso a un musical con un giovane Lui e la ragazza dai capelli rossi, poi un discorso d’addio davanti a un’assemblea di persone che sembrano essere suoi parenti. Un delirio, una fantasia di un vecchio terribilmente solo e agonizzante, che ci immerge in uno spaventoso sorriso compassionevole e in una terribile angoscia.
Un gioco magistrale tra una voce fuori campo ben proporzionata, un’inquadratura giudiziosa, un dialogo saggio e penetrante, una personalità femminile viva e lucida, una temporalità disturbata e una geografia inquietante che servono un discorso metafisico degno di una moderna Sirenetta. Un incredibile schiaffo filosofico che rende questo racconto crudele e orribile di un Charlie Kaufman sottile e riflessivo un’opera da assaporare lentamente. I’m Thinking of Ending Things è attualmente su Netflix.

Tradotto dal francese da Corneille Bunguye
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